Diritto processuale civile
In caso di plurime C.T.U. divergenti, il giudice deve motivare le ragioni della sua scelta
La Corte di Cassazione, con l’Ordinanza n. 18308 del 4 luglio 2024, ha affermato che, qualora nel corso del giudizio di merito vengano espletate diverse consulenze tecniche con risultati difformi, il Giudice può seguire il parere che ritiene più congruo o discostarsene dando adeguata e specifica giustificazione del suo convincimento. In particolare, la Corte ha specificato che il Giudice deve giustificare la propria preferenza indicando le ragioni per cui ritiene di disattendere le conclusioni del primo consulente. Infine, tale obbligo risulta esaurito quando il Giudice nella propria motivazione indica le fonti del suo convincimento.
L’efficacia probatoria dell’atto pubblico fino a querela di falso
La Corte di Cassazione, con l’Ordinanza n. 23079 del 26 agosto 2024, ha statuito che l’efficacia probatoria dell’atto pubblico, nella parte in cui fa fede fino a querela di falso, è limitata agli elementi estrinseci dell’atto indicati all’art. 2700 cod. civ. e non si estende al contenuto intrinseco del medesimo, che può anche non essere veritiero. In particolare, ha precisato la Corte, l’efficacia probatoria fino a querela di falso del contenuto di un verbale non può estendersi alle valutazioni espresse dal pubblico ufficiale, a seguito di percezioni sensoriali, queste, pertanto, ammettono la prova contraria, nei limiti consentiti dalla legge, in ordine alla veridicità e all’esattezza delle dichiarazioni rese nel menzionato atto delle parti.
Error facti e revocazione: quando la falsa rappresentazione della realtà processuale determina la decisione del giudice.
Con l’Ordinanza n. 23469 del 2 settembre 2024, la Suprema Corte ha stabilito che in tema di revocazione di una pronuncia della Corte di Cassazione, la falsa rappresentazione, in capo al giudice, della realtà processuale in cui consiste l’allegazione di un decisivo “error facti” addotto a fondamento dell’azione revocatoria deve, già in astratto, sulla base cioè delle mere deduzioni del ricorrente in revocazione, alla stregua di una prospettazione che è suo onere esplicitare e supportare documentalmente, costituire l’antecedente di un preciso determinismo causale rispetto alla concreta decisione adottata dal giudice sulla base, anche, ma imprescindibilmente, di tale errore.
Diritto bancario
Rapporti bancari: la mancata consegna del contratto non comporta alcuna nullità
La Corte di Cassazione, con l’Ordinanza n. 18230 del 3 luglio 2024, ha stabilito che la mancata consegna del documento contrattuale non integra una causa di nullità rilevabile d’ufficio dal Giudice. In particolare, la Corte ha affermato il principio secondo cui, ove non altrimenti stabilito dalla legge, soltanto la violazione di norme inderogabili concernenti la validità del contratto può determinare la nullità di quest’ultimo mentre la violazione di norme imperative riguardante il comportamento dei contraenti, invece, può essere fonte di responsabilità, ma non comporta la nullità del contratto stesso.
Responsabilità in caso di sottrazione e riscossione da parte di un soggetto non legittimato di un assegno spedito per posta ordinaria
La Corte di Cassazione, con l’Ordinanza n. 23380 del 30 agosto 2024, ha ribadito il principio secondo cui la spedizione per posta ordinaria di un assegno, ancorché munito di clausola di intrasferibilità, costituisce, in caso di sottrazione del titolo e riscossione da parte di un soggetto legittimato, condotta idonea a giustificare l’affermazione del concorso di colpa del mittente. In particolare, la Suprema Corte ha affermato che l’utilizzo da parte del mittente di tali modalità di trasmissione costituisce l’esposizione volontaria del mittente ad un rischio superiore a quello consentito dal rispetto delle regole di comune prudenza e del dovere di agire per preservare gli interessi degli altri soggetti coinvolti nella vicenda, e configurandosi dunque come un antecedente necessario dell’evento dannoso, concorre ex art. 1227 cod. civ. con il comportamento colposo eventualmente tenuto dalla banca nell’identificazione del presentatore.
Banche responsabili se l’assegno non trasferibile è incassato da un terzo per conoscenza e garanzia
La Corte di Cassazione, con l’Ordinanza n. 19815 del 18 luglio 2024, ha stabilito che le banche sono responsabili verso i correntisti se un assegno non trasferibile è incassato da un terzo tramite la girata “per conoscenza e garanzia”.
La Suprema Corte ha ribadito che detta modalità di girata, apposta da un cliente dopo che l’assegno è stato girato dal prenditore apparente, è illegittima, poiché viola l’articolo 43, primo comma, della legge sugli assegni. Pertanto, la banca che gestisce l’incasso deve seguire procedure di diligenza e cautela per verificare la correttezza e la regolarità dell’assegno. In caso contrario, può essere ritenuta responsabile insieme alla banca trattaria, e la responsabilità di entrambe sarà valutata nel determinare le cause dell’evento dannoso.
Diritto societario
Cancellazione società di capitali: i soci subentrano nell’attivo e nel passivo
La Corte di Cassazione, con la Sentenza n. 18720 del 9 luglio 2024, ha affermato in tema di successione societaria che i soci succedono nei rapporti debitori già facenti capo alla società cancellata ma non definiti all’esito della liquidazione, fermo restando il loro diritto di opporre al creditore agente il limite di responsabilità di cui all’art. 2495 cod. civ. Infatti, la Corte precisa che con l’estinzione della società, dopo la cancellazione, i creditori sociali non soddisfatti possono far valere i loro crediti nei confronti dei soci fino alla concorrenza delle somme da queste riscosse in base al bilancio finale di liquidazione, e nei confronti dei liquidatori, se il mancato pagamento è dipeso da colpa di questi.
I limiti all’operatività della c.d. business judgement rule
La Corte di Cassazione, con l’Ordinanza n. 25260 del 20 settembre 2024, con riguardo al principio di insindacabilità del merito delle scelte gestionali (c.d. business judgement rule), ha escluso l’immunità dell’amministratore di società laddove il suo comportamento, pur non essendo contrario alla legge o allo statuto, si dimostri, a cura della società, contrario ai doveri di diligenza previsti dall’art. 2392 cod. civ. In particolare, secondo la citata pronuncia, la circostanza secondo cui i comportamenti contestati non sono contrari allo Statuto o non siano vietati dalla legge non esclude la responsabilità dell’amministratore, atteso che possono ugualmente ritenersi integranti le violazioni dei doveri di lealtà (non agire in conflitto di interessi con la società) o di diligenza (adozione delle misure necessarie alla luce degli interessi sociali), quali fattispecie idonee ad integrare l’illecito.
Le azioni e le quote di società di capitali come beni di “secondo grado”: tutela del valore della partecipazione e applicazione del principio di buona fede in caso di discordanza patrimoniale
La Corte di Cassazione, con l’Ordinanza n. 19833 del 18 luglio 2024, ha affermato che le azioni (e le quote) delle società di capitali costituiscono beni di “secondo grado”, in quanto non sono del tutto distinti e separati da quelli compresi nel patrimonio sociale e sono rappresentative delle posizioni giuridiche spettanti ai soci in ordine alla gestione ed alla utilizzazione di detti beni, funzionalmente destinati all’esercizio dell’attività sociale.
I giudici di legittimità hanno ritenuto che le azioni esperibili a tutela dell’effettivo valore della partecipazione discendano da un’applicazione del generale canone di buona fede e siano limitate alle ipotesi in cui la differenza tra l’effettiva consistenza quantitativa del patrimonio sociale rispetto a quella indicata nel contratto, incida sulla solidità economica e sulla produttività della società, e quindi sul valore delle azioni o delle quote, che sono l’oggetto immediato della cessione.
Tale differenza può integrare una mancanza delle qualità essenziali della cosa, o essere indizio del fatto che i beni confluiti nel patrimonio siano assolutamente privi della capacità funzionale a soddisfare i bisogni dell’acquirente, quindi “radicalmente diversi” da quelli pattuiti.
Diritto fallimentare e concorsuale
Istanza ultratardiva: il curatore deve provare la conoscenza effettiva della procedura
La Corte di Cassazione, con l’Ordinanza n. 18370 del 5 luglio 2024, pronunciandosi in merito alla domanda di ammissione al passivo ultratardiva presentata da un creditore fondiario, ha affermato il principio secondo cui in caso di mancato invio dell’avviso ex art. 92 L. Fall., il curatore fallimentare non può ricorrere alla prova presuntiva per dimostrare la conoscenza effettiva del fallimento da parte del creditore, ma deve provare che questi ha avuto conoscenza effettiva dell’apertura della procedura in una data determinata mediante un atto o un fatto equipollenti all’avviso. Inoltre, la Corte ha precisato che le domande di insinuazione al passivo ultratardive sono ammissibili se l’istante prova che il ritardo è dipeso da causa a lui non imputabile.
Il surplus derivante dalla continuità aziendale costituisce garanzia patrimoniale dell’impresa in concordato preventivo.
La Corte di Cassazione, con Sentenza n. 22169 del 6 agosto 2024, pronunciandosi in materia di concordato con continuità aziendale, ha affermato che il surplus derivante dalla continuazione dell’attività di impresa non è liberamente destinabile dal debitore senza vincoli di distribuzione (i.e. senza rispettare l’ordine di graduazione delle cause legittime di prelazione).
Secondo la Corte, infatti, la previsione dell’art. 160, comma 2, L. Fall. non consente affatto l’alterazione delle cause di prelazione, sicché non è nel potere del debitore distribuire liberamente tra le classi il surplus derivante dalla continuità aziendale senza osservare il disposto sopra richiamato. Tale surplus, infatti, va inteso come bene futuro rientrante nella più generale garanzia patrimoniale del debitore, quale prevista dalla norma imperativa dell’art. 2740 cod. civ. La continuità aziendale è, invero, strumentale al ‘miglior soddisfacimento di creditori’ che deve essere perseguito nel rispetto delle cause di prelazione.
In caso di concordato preventivo, i crediti contestati giudizialmente devono essere oggetto di classamento
La Corte di Cassazione, con l’Ordinanza n. 21431 del 31 luglio 2024, ha affermato che in tema di concordato preventivo, la sussistenza di crediti oggetto di contestazione giudiziale non preclude il loro doveroso inserimento in una delle classi omogenee previste dalla proposta, ovvero in apposita classe ad essi riservata, assolvendo tale adempimento, ricadente sul debitore ed oggetto di controllo critico sulla regolarità della procedura che il tribunale deve assolvere direttamente, ad una fondamentale esigenza di informazione dell’intero ceto creditorio.
Da un lato, infatti, tale omissione pregiudicherebbe gli interessi di coloro che al momento non dispongono ancora dell’accertamento definitivo dei propri diritti (ma che possono essere ammessi al voto, ex art. 176 L. Fall., con previsione di specifico trattamento per l’ipotesi che le pretese siano confermate o modificate in sede giurisdizionale); dall’altro, essa altererebbe le previsioni del piano di soddisfacimento degli altri creditori certi, non consentendo loro di esprimere valutazioni prognostiche corrette e di atteggiarsi in modo pienamente informato circa il proprio voto.
Proprietà intellettuale e Privacy
La “Bolar Clause” e le limitazioni al diritto di esclusiva sul brevetto
La Corte di Cassazione, con la Sentenza n. 18372 del 5 luglio 2024, ha affermato il principio secondo cui la c.d. “Bolar clause” sia tesa ad agevolare il tempestivo ingresso sul mercato dei farmaci generici e possa ritenersi applicabile anche all’attività di terzi che producono il principio attivo del farmaco brevettato, per finalità registrative non proprie ma di terzi genericisti, non attrezzati a produrre in proprio, ma intenzionati ad entrare sul mercato, alla scadenza dell’esclusiva del titolo brevettuale.
Competenza territoriale nelle azioni in materia di proprietà industriale
La Corte di Cassazione, con l’Ordinanza n. 22453 dell’8 agosto 2024, ha statuito il principio secondo cui in tema di competenza territoriale nelle azioni in materia di proprietà industriale, il criterio concorrente del forum commissi delicti previsto dall’art. 120, comma 6, c.p.i. regola la competenza in favore del soggetto che ha subìto il preteso danno solo laddove sussista o sia stato prospettato un fatto lesivo del diritto dell’attore. Tale norma non si applica, invece, nel caso di azione di accertamento negativo della contraffazione, in cui l’attore non si pone come preteso danneggiato, non facendo valere un fatto lesivo del proprio diritto, ma la non lesività della propria condotta rispetto al diritto del convenuto, restando in tal caso applicabile il foro del domicilio eletto dal convenuto titolare di un brevetto o di una registrazione, di cui all’art. 120, comma 3, c.p.i., in combinato disposto con il comma 6-bis della medesima norma, che prevale, ove vi sia stata elezione di domicilio, sui primi tre fori elencati dal comma 2.
La registrazione di un segno come marchio è invalida laddove induca nel pubblico l’erronea convinzione che il prodotto provenga da un’area territoriale nota per le eccellenti qualità di quel prodotto
La Corte di Cassazione, con la Sentenza n. 18683 del 9 luglio 2024 ha ritenuto invalida la registrazione di un segno come marchio, se può indurre nel pubblico l’erronea convinzione che il prodotto provenga da un’area territoriale nota per le eccellenti qualità di quel prodotto, giacché in tale ipotesi si verifica un effetto distorsivo del mercato, ingenerato dall’inganno subito dai consumatori – portati a credere che il prodotto che viene loro proposto provenga da una certa area geografica e goda dei pregi per cui essa è nota – e ciò a prescindere dall’appartenenza di un diritto di proprietà intellettuale sulla denominazione dell’area geografica in capo a chicchessia e in particolare al soggetto che denuncia la decettività del segno.
Nella specie, la Suprema Corte ha cassato il provvedimento impugnato che aveva respinto la domanda di risarcimento del danno per contraffazione conseguente alla dedotta invalidità della registrazione di un segno come marchio, proposta da un noto birrificio nei confronti di imprese concorrenti che avevano utilizzato il segno su prodotti provenienti da area geografica diversa da quella boema, in cui l’attore produceva il proprio prodotto.
Nazione